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I bambini difficili (seconda parte)

Infanzia

I bambini difficili (seconda parte)

Redattori: COURBION Sophie e NOIROT Elise, Neuropsicologhe, Dott.ssa Marcelline RENAUD YANG, Pedopsichiatra

La letteratura scientifica ha ampiamente dimostrato l’esistenza di fattori di rischio. Non è certo questione di cause di problemi comportamentali nei bambini, quanto, invece, di fattori che aumentano la probabilità che tali disturbi possano fare la loro comparsa e che possano perdurare.

Possiamo individuare 4 famiglie:

  • Fattori di rischio del linguaggio
  • Fattori di rischio cognitivi
  • Fattori educativi
  • Fattori affettivi

I primi riguardano i ritardi o i disturbi del linguaggio orale. Un bambino che si esprime male, avrà molta difficoltà a poter negoziare con un adulto; da ciò scaturisce il senso di frustrazione che potrebbe generare collera e problemi comportamentali. Inoltre, un bambino che non parla bene sarà sollecitato in maniera differente dal proprio ambiente relazionale. Il problema potrebbe essere, in quel caso, bidirezionale.

Per quanto riguarda i secondi fattori, sicuramente, il funzionamento intellettivo ha la sua importanza, poiché un bambino che capisce male, potrebbe manifestare, di rimando, un comportamento inadeguato. Ma dobbiamo anche considerare quelle che chiamiamo le “funzioni esecutive”, ossia, in particolar modo, l’attenzione e la capacità di inibire ciò che giunge in maniera impulsiva.

I terzi fattori riguardano la maniera in cui i genitori educano i propri figli, e soprattutto la propria sensazione di competenza: sono capace di farmi obbedire e di dare un’immagine positiva della mia autorità?

Infine, gli ultimi fattori riguardano la sensazione di sicurezza affettiva (attaccamento) legata all’ambiente sociale e familiare.

Vediamo bene che tali fattori possono essere intricati, anche se gli studi hanno dimostrato che nel 70% dei bambini i fattori educativi costituiscono il principale elemento all’opera nell’insorgenza di problemi comportamentali. Ma quando le difficoltà si accumulano, la situazione si degrada e i genitori si sentono colpevoli e sopraffatti. È stato dimostrato che a partire da 3 fattori di rischio, a prescindere dalla loro natura, il comportamento diventa difficilmente gestibile e ciò porta i genitori a chiedere un consulto.

Avremo ben compreso che tali fattori di rischio sono degli indicatori che aiutano a poter individuare bambini suscettibili di presentare difficoltà di comportamento, ma non sono in alcun caso fattori predittivi.

Appare dunque evidente che l’obiettivo degli interventi è quello di agire su tali fattori di rischio: in questo modo potremo abbassare, quindi, la probabilità di comparsa di questi comportamenti problematici. Ad esempio, nel caso in cui dovessimo individuare problemi a livello delle funzioni esecutive, potremmo proporre un allenamento dell’inibizione. Possiamo anche stimolare la cognizione sociale (agire sull’attribuzione di ostilità, ...), possiamo agire sullo sviluppo del linguaggio, sulle interazioni verbali con i genitori, ma anche su una genitorialità positiva, oppure possiamo rafforzare la sicurezza di attaccamento...

Tutta una serie di studi dimostra che gli interventi che funzionano abbastanza bene e, forse, meglio degli altri, sono quelli effettuati sui genitori. Non perché siano da considerarsi come i responsabili dell’emergere dei disturbi, ma piuttosto perché devono, nel quotidiano, rivestire il ruolo di coach sostitutivo, per poter attuare tutta una serie di routine relazionali, adattare le proprie richieste al bambino, rafforzare ciò che è buono e ridurre, così, i fattori di rischio, aiutando il figlio laddove si manifestino delle difficoltà. Sono i cosiddetti programmi di ORIENTAMENTO in CAPACITÀ GENITORIALI (tipo metodo Barkley, Resistenza Non Violenta, ...).

Ma vi sono anche dei limiti all’efficacia di tali interventi. Soprattutto, per quanto riguarda, gli effetti deleteri che essi possono provocare sulla cogenitorialità. È infatti raro che entrambi i genitori siano contemporaneamente presenti durante tali prese in carico. Nel 90% dei casi, solamente la madre è presente. Lavorando sulle cognizioni materne, la madre procede da sola, e ciò può indurre una cattiva comunicazione all’interno della coppia. Sopraggiungono, quindi, nuove difficoltà. Se da un lato si apportano benefici, dunque, dall’altro lato si rischia di alterare qualcosa che non funzionava poi così male prima di effettuare gli interventi in questione. I benefici devono essere, perciò, relativizzati...

Come riuscire a gestire una crisi?

La parola chiave è: ANTICIPARE

Per fare ciò, è necessario poter osservare con metodo e senza “troppe” emozioni negative.

Dobbiamo pensare che una crisi dura in media 20 minuti. Durante l’osservazione è doveroso considerare oggettivamente quale sia il comportamento che vogliamo veder modificato = questo diventerà il comportamento target.

  • In che modo si manifesta? (Il bambino grida? Picchia? Piange?)
  • Quali sono stati i fattori scatenanti? (Contesto)
  • Qual è la frequenza?
  • Cosa posso fare per calmarlo? (Lo devo isolare? Contenere? ...)

Ma dobbiamo anche aver presente il comportamento che vogliamo che impari per poterlo sostituire all’altro: si tratta del comportamento alternativo.

Avere le idee ben chiare permette di coordinare le azioni tra i due genitori, ma anche in ambito scolastico, nello svago... (nel caso in cui le crisi dovessero manifestarsi in tali occasioni), prima di agire con coerenza.

Come dover intervenire? Le strategie dette PROATTIVE sono di lunga le più efficaci. Si tratta di partecipare al massimo nel quotidiano del bambino, adattando gli interventi in funzione del contesto; da ciò deriva l’importanza degli orientamenti forniti ai genitori che riprendano abitudini e valori familiari.

Stabilire un perimetro:

  • Stabilire un perimetro chiaro, strutturante e senza troppi vincoli, i quali rischierebbero di sovraccaricare cognitivamente il bambino.
  • Identificare e porre 3 regole “non negoziabili e permanenti”. Ricordare tali regole è fondamentale e possiamo farlo tramite giochi di ruolo o del mimo, affinché siano assimilata.
  • Avere la giusta attitudine: mantenerla e seguirla! Fondamentale è il fatto di aver individuato all’inizio un comportamento problematico (e non vari comportamenti).

(Ri)scoprite il primo articolo della serie qui.

Nel prossimo articolo vedremo come riuscire a capire meglio la disregolazione emotiva e le crisi di collera nel bambino in tenera età e come aiutarlo a gestirle.

Riferimenti bibliografici:

Roskam, I. (2012). Les enfants difficiles 3-8 ans. Bruxelles: Mardage.
Roskam, I. (2013). Mon enfant est insupportable. Comprendre les enfants difficiles. Bruxelles: Mardage.